« Ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera. »

martedì 30 aprile 2013

Il Primo Maggio

l 1° Maggio è la Festa del Lavoro, o festa dei lavoratori e delle lavoratrici.

Questa giorno è festeggiato ogni anno e serve per ricordare l’impegno di molti lavoratori che negli anni si sono battuti per migliorare le proprie condizioni di vita e avere maggiori diritti.
L’origine della Festa dei lavoratori si deve alle battaglie che gli operai hanno fatto per conquistare un orario di lavoro di 8 ore giornaliere.

Con la Prima Internazionale (organizzazione internazionale di lavoratori, fondata nel 1864, all’interno della quale c’erano operai, anarchici e socialisti) si sviluppò un grande movimento di lotta sulla questione delle 8 ore, soprattutto presso le organizzazioni dei lavoratori statunitensi.

Una prima vittoria di questo movimento si ebbe nello stato americano dell’Illinois quando nel 1866 venne approvata una legge che introduceva la giornata lavorativa di 8 ore appunto.
Questa legge entrava in vigore il 1 Maggio del 1867, e per quel giorno venne organizzata a Chicago una grande manifestazione, un enorme corteo di lavoratori.

Successivamente un sindacato americano (un sindacato è una organizzazione che rappresenta gli interessi di operai, contadini, impiegati e altri lavoratori nei conforti dei datori di lavoro e si batte per migliorare le condizioni dei lavoratori) prese l’iniziativa di indicare nel 1 Maggio 1886 la data a partire dalla quale gli operai americani si sarebbero rifiutati di lavorare più di 8 ore al giorno.

Il 1 Maggio 1886 in molte fabbriche degli Stati Uniti migliaia di lavoratori incrociarono le braccia: nella città di Chicago, e in altre città americane, gli operai scioperarono e parteciparono a grandi manifestazioni nelle strade.
Le manifestazioni e gli scioperi per il diritto ad 8 ore di lavoro giornaliere continuarono per più giorni dopo il 1 Maggio e si ebbero alcuni scontri con la polizia -  la polizia,  che era dalla parte dei datori di lavoro, non voleva che vincesse questo movimento che rivendicava le 8 ore di lavoro giornaliere  -  che in varie occasioni sparò  sui manifestanti e fece alcuni morti.

Durante una manifestazione che si teneva a Chicago fu lanciata una bomba da un ignoto, non si è mai saputo chi fosse. La polizia approfitto di questo avvenimento per eliminare alcuni esponenti della protesta (e di conseguenza mettere paura a lavoratori e lavoratrici, in modo da fargli rinunciare alle rivendicazioni dei diritti): della bomba furono infatti  accusati ingiustamente alcuni lavoratori anarchici, sette dei quali vennero impiccati.

Queste persone condannate ingiustamente sono passate alla storia come “martiri di Chicago, erano lavoratori che si battevano per i propri diritti e diventarono il simbolo della lotta per le 8 ore: a loro è stata dedicata la ricorrenza del 1 Maggio.

Ancora oggi la Festa dei lavoratori assume molta importanza, in questo periodo dove i diritti dei lavoratori, diritti che negli anni sono stati faticosamente conquistati, vengono sempre più limitati e sono continuamente messi in pericolo.

Per la mamma - Gianni Rodari


Filastrocca delle parole:
si faccia avanti chi ne vuole.
Di parole ho la testa piena,
con dentro “la luna” e “la balena”.
Ma le più belle che ho nel cuore,
le sento battere: “mamma”, “amore”.

lunedì 29 aprile 2013

La madre di Victor Hugo

La madre è un angelo che ci guarda
che ci insegna ad amare!
Ella riscalda le nostre dita, il nostro capo
fra le sue ginocchia, la nostra anima
nel suo cuore: ci dà il suo latte quando
siamo piccini, il suo pane quando
siamo grandi e la sua vita sempre.

A mia madre - Pier Paolo Pasolini

Supplica a Mia Madre

E' difficile dire con parole di figlio
ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.
Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,
ciò che è stato sempre, prima d'ogni altro amore.
Per questo devo dirti ciò ch'è orrendo conoscere:
è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.
Sei insostituibile. Per questo è dannata
alla solitudine la vita che mi hai data.
E non voglio esser solo. Ho un'infinita fame
d'amore, dell'amore di corpi senza anima.
Perché l'anima è in te, sei tu, ma tu
sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:
ho passato l'infanzia schiavo di questo senso
alto, irrimediabile, di un impegno immenso.
Era l'unico modo per sentire la vita,
l'unica tinta, l'unica forma: ora è finita.
Sopravviviamo: ed è la confusione
di una vita rinata fuori dalla ragione.
Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…

Pier Paolo Pasolini

Cento passi




mercoledì 24 aprile 2013

Zio Pino Puglisi - Ficarra e Picone

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La storiella scritta da Gino Strada insieme alla figlia Cecilia

La storiella scritta da Gino Strada insieme alla figlia Cecilia: da leggere e diffondere ! In evidenza

Gino Strada 


Gino Strada, il medico fondatore di Emergency, ha scritto questa storia insieme a sua figlia Cecilia, per spiegare ai bambini il significato di parole come "diritti", "pace", "uguaglianza".




C 'era una volta un pianeta chiamato Terra. Si chiamava Terra anche se, a dire il vero, c'era molta più acqua che terra su quel pianeta. Gli abitanti della Terra, infatti, usavano le parole in modo un po' bislacco. Prendete le automobili, per esempio. Quel coso rotondo che si usa per guidare, loro lo chiamavano "volante", anche se le macchine non volano affatto! Non sarebbe più logico chiamarlo "guidante", oppure"girante", visto che serve per girare? Anche sulle cose importanti si faceva molta confusione.
Si parlava spesso di "diritti": il diritto all'istruzione, per esempio, significava che tutti i bambini avrebbero potuto (e dovuto!) andare a scuola. Il diritto alla salute poi, avrebbe dovuto significare che chiunque, ferito, oppure malato, doveva avere la possibilità di andare in ospedale.
Ma per chi viveva in un paese senza scuole, oppure a causa della guerra non poteva uscire di casa, oppure chi non aveva i soldi per pagare l'ospedale (e questo, nei paesi poveri, è più la regola che l'eccezione), questi diritti erano in realtà dei rovesci: non valevano un fico secco.
Siccome non valevano per tutti ma solo per chi se li poteva permettere, queste cose non erano diritti: erano diventati privilegi, e cioè vantaggi particolari riservati a pochi. A volte, addirittura, i potenti della terra chiamavano "operazione di pace" quella che, in realtà, era un'operazione di guerra: dicevano proprio il contrario di quello che in realtà intendevano.
E poi, sulla Terra, non c'era più accordo fra gli uomini sui significati: per alcuni ricchezza significava avere diecimila miliardi, per altri voleva dire avere almeno una patata da mangiare. Quanta confusione!Tanta confusione che un giorno il mago Linguaggio non ne poté più.
Mago LinguaggioLinguaggio era un mago potentissimo, che tanto tempo prima aveva inventato le parole e le aveva regalate agli uomini. All'inizio c'era stato un po' di trambusto, perché gli uomini non sapevano come usarle, e se uno diceva carciofo l'altro pensava al canguro, e se uno chiedeva spaghetti l'altro intendeva gorilla, e al ristorante non ci si capiva mai.
Allora il mago Linguaggio appiccicò ad ogni parola un significato preciso, cosicché le parole volessero dire sempre la stessa cosa, e per tutti.
Da allora il carciofo è sempre stato un ortaggio, e il gorilla un animale peloso, e non c'era più il rischio di trovarsi per sbaglio nel piatto un grosso animale peloso, con il suo testone coperto di sugo di pomodoro. Questo lavoro, di dare alle parole un significato preciso, era costato un bel po' di fatica al mago Linguaggio. Adesso, vedendo che gli uomini se ne infischiavano del suo lavoro, e continuavano ad usarle a capocchia, decise di dare loro una lezione: "Le parole sono importanti", amava dire, "se si cambiano le parole si cambia anche il mondo, e poi non si capisce più niente".
Una notte, dunque, si mise a scombinare un po' le cose, spostando una sillaba qui, una là, mescolando vocali e consonanti, anagrammando i nomi. Alla mattina, infatti, non ci si capiva più niente. A tutti gli alberghi di una grande città aveva rubato la lettera gi e la lettera acca, ed erano diventati...alberi! Decine e decine di enormi alberi, con sopra letti e comodini e frigobar, e i clienti stupitissimi che per scendere dovevano usare le liane come Tarzan.
macchieAlle macchine aveva rubato una enne, facendole diventare macchie, e chi cercava la propria automobile trovava soltanto una grossa chiazza colorata parcheggiata in strada. Alle torte invece aveva aggiunto una esse, erano diventate tutte storte, e cadevano per terra prima che i bambini se le potessero mangiare. Erano talmente storte che non erano più buone nemmeno per essere tirate in faccia. Nelle scuole si era anche divertito ad anagrammare, al momento dell'appello, la parola presente, e se prima gli alunni erano tutti presenti, adesso erano tutti serpenti, e le maestre scappavano via terrorizzate.
Poi si era tolto uno sfizio personale: aveva eliminato del tutto la parola guerra, che aveva inventato per sbaglio, e non gli era mai piaciuta. Così un grande capo della terra, che in quel momento stava per dichiarare guerra, dovette interrompersi a metà della frase, e non se ne fece nulla. Inoltre aveva trasformato i cannoni in cannoli, siciliani naturalmente, e chi stava combattendo si ritrovò tutto coperto di ricotta e canditi. Andò avanti così per parecchi giorni, con le scarpe che diventavano carpe e nuotavano via, i mattoni che diventavano gattoni e le case si mettevano a miagolare, il pane che si trasformava in un cane e morsicava chi lo voleva mangiare. Quanta confusione! Troppa confusione, e gli uomini non ne potevano più.
Mandarono quindi una delegazione dal mago Linguaggio, a chiedere che rimettesse a posto le parole, e con loro il mondo. "E va bene" disse Linguaggio "ma solo ad una condizione: che cominciate a usare le parole con il loro giusto significato." "I diritti degli uomini devono essere di tutti gli uomini, proprio di tutti, sennò chiamateli privilegi.Uguaglianza deve significare davvero che tutti sono uguali e non che alcuni sono più uguali di altri. E per quanto riguarda la guerra..." "Per quanto riguarda la guerra" lo interruppero gli uomini "ci abbiamo pensato... tienitela pure: è una parola di cui vogliamo fare a meno."

25 aprile

La Festa della Liberazione, anniversario della Resistenza o semplicemente 25 aprile, viene festeggiato in Italia il 25 aprile di ogni anno e rappresenta un giorno fondamentale per la storia d'Italia: la fine dell'occupazione nazista ed il termine del ventennio fascista, avvenuta il 25 aprile 1945, al termine della seconda guerra mondiale.

Convenzionalmente fu scelta questa data, perché il 25 aprile 1945 fu il giorno della liberazione di Milano e Torino. Entro il 1º maggio, poi, tutta l'Italia settentrionale fu liberata: Bologna (il 21 aprile), Genova (il 26 aprile), Venezia (il 28 aprile). La Liberazione mette così fine a venti anni di dittatura fascista ed a cinque anni di guerra; simbolicamente rappresenta l'inizio di un percorso storico che porterà al referendum del 2 giugno 1946 per la scelta fra monarchia e repubblica, quindi alla nascita della Repubblica Italiana, fino alla stesura definitiva della Costituzione.

La storia - Francesco De Gregori


La storia siamo noi, nessuno si senta offeso, 
siamo noi questo prato di aghi sotto il cielo. 

La storia siamo noi, attenzione, nessuno si senta escluso.  La storia siamo noi, siamo noi queste onde nel mare, questo rumore che rompe il silenzio, questo silenzio così duro da masticare. 
E poi ti dicono “Tutti sono uguali, 
tutti rubano alla stessa maniera”. 
Ma è solo un modo per convincerti a restare chiuso dentro casa quando viene la sera. 

Però la storia non si ferma davvero davanti a un portone, la storia entra dentro le stanze, le brucia, la storia dà torto e dà ragione. 
La storia siamo noi, siamo noi che scriviamo le lettere, 
siamo noi che abbiamo tutto da vincere, tutto da perdere. 
E poi la gente, (perchè è la gente che fa la storia) 
quando si tratta di scegliere e di andare, 
te la ritrovi tutta con gli occhi aperti, 
che sanno benissimo cosa fare. 

Quelli che hanno letto milioni di libri 
e quelli che non sanno nemmeno parlare, 
ed è per questo che la storia dà i brividi, 
perchè nessuno la può fermare. 

La storia siamo noi, siamo noi padri e figli, 
siamo noi, bella ciao, che partiamo. 

La storia non ha nascondigli, 
la storia non passa la mano. 
La storia siamo noi, siamo noi questo piatto di grano.



martedì 23 aprile 2013

L’avvenire è nelle vostre mani

“Ragazzi, godetevi la vita, innamoratevi, siate felici ma diventate partigiani di questa nuova resistenza, LA RESISTENZA DEI VALORI, LA RESISTENZA DEGLI IDEALI.
Non abbiate mai paura di pensare, di denunciare e di agire da uomini liberi e consapevoli. State attenti, siate vigili, siate sentinelle di voi stessi!
L’avvenire è nelle vostre mani. Ricordatelo sempre!”. 

(Antonino Caponnetto)
▒   RESISTERE   RESISTERE   RESISTERE... per ESISTERE.

“Ragazzi, godetevi la vita, innamoratevi, siate felici ma diventate partigiani di questa nuova resistenza, LA RESISTENZA DEI VALORI, LA RESISTENZA DEGLI IDEALI. 
Non abbiate mai paura di pensare, di denunciare e di agire da uomini liberi e consapevoli. State attenti, siate vigili, siate sentinelle di voi stessi! 
L’avvenire è nelle vostre mani. Ricordatelo sempre!”. 
(Antonino Caponnetto)

lunedì 22 aprile 2013

Temi 2 i

1- Palermo, pro e contro. Idee per renderla migliore.

2- Scrivi un'intervista immaginaria ad una persona che stimi in modo particolare.

3- Scrivi un articolo di giornale su un recente fatto di cronaca rispettando la regola delle 5w più 1 H.

4 - Racconta la tua vita in 10 flash-back.

Temi 1 i

1-Descrivi la tua famiglia due volte, prima in modo oggettivo, poi in modo soggettivo.

2- Se io fossi il dirigente scolastico di questo istituto, farei...

3. Scegli un animale, descrivi la tua giornata allo zoo raccontandola in prima persona.

mercoledì 17 aprile 2013

I dialetti e gli italiani regionali



Italo Calvino: perché scrivo

Italo Calvino: perché scrivo

Scrivo perché non ero dotato per il commercio, non ero dotato per lo sport, non ero dotato per tante altre, ero un poco…, per usare una fase famosa [di Sartre], l’idiota della famiglia… In genere chi scrive è uno che, tra le tante cose che tenta di fare, vede che stare a tavolino e buttar fuori della roba che esce dalla sua testa e dalla sua penna è un modo per realizzarsi e per comunicare. Posso dire che scrivo per comunicare perché la scrittura è il modo in cui riesco a far passare delle cose attraverso di me, delle cose che magari vengono a me dalla cultura che mi circonda, dalla vita, dall’esperienza, dalla letteratura che mi ha preceduto, a cui do quel tanto di personale che hanno tutte le esperienze che passano attraverso una persona umana e poi tornano in circolazione. È per questo che scrivo. Per farmi strumento di qualcosa che è certamente più grande di me e che è il modo in cui gli uomini guardano, commentano, giudicano, esprimono il mondo: farlo passare attraverso di me e rimetterlo in circolazione. Questo è uno dei tanti modi con cui una civiltà, una cultura, una società vive assimilando esperienze e rimettendole in circolazione (1983).
Scrivo perché sono insoddisfatto di quel che ho già scritto e vorrei in qualche modo correggerlo, completarlo, proporre un’alternativa. In questo senso non c’è stata una “prima volta” in cui mi sono messo a scrivere. Scrivere è sempre stato cercare di cancellare di già scritto e mettere al suo posto qualcosa che ancora non so se riuscirò a scrivere.
Scrivo perché leggendo X (un X antico o contemporaneo) mi viene da pensare: “Ah, come mi piacerebbe scrivere come X! Peccato che ciò sia completamente al di là delle mie possibilità!”. Allora cerco di immaginarmi questa impresa impossibile, penso al libro che non scriverò mai ma che mi piacerebbe poter leggere, poter affiancare ad altri libri amati in uno scaffale ideale. Ed ecco che già qualche parola, qualche frase si presentano alla mia mente… Da quel momento in poi non sto più pensando a X, né ad alcun altro modello possibile. È a quel libro che penso, a quel libro che non è stato ancora scritto e che potrebbe essere il mio libro! Provo a scriverlo…
Calvino in una caricatura di Tullio Pericoli

Scrivo per imparare qualcosa che non so. Non mi riferisco adesso all’arte della scrittura, ma al resto: a un qualche sapere o competenza specifica, oppure a quel sapere più generale che chiamano “esperienza della vita”. Non è il desiderio di insegnare ad altri ciò che so o credo di sapere che mi mette voglia di scrivere, ma al contrario la coscienza dolorosa della mia incompetenza. Il mio primo impulso sarebbe dunque di scrivere per fingere una competenza che non ho? Me per essere in grado di fingere, devo in qualche modo accumulare informazioni, nozioni, osservazioni, devo riuscire a immaginarmi il lento accumularsi dell’esperienza. E questo posso farlo solo nella pagina scritta, dove spero di catturare almeno qualche traccia d’un sapere o d’una saggezza che nella vita ho sfiorato appena e subito perso (1985).

martedì 9 aprile 2013

Il testo regolativo- Le nostre ricette

GIUSEPPE ODDO 2 I
CASSATELLE SICILIANE

1 kg di ricotta di pecora
700 grammi di zucchero
100 grammi di cioccolato fondente a gocce
100 grammi di capello d'angelo o zuccata
Una buccia grattuggiata di limone

Amalgamare la ricotta di pecora, aggiungere lo zucchero e cioccolato fondente a gocce.Fare riposare un pò il composto e poi aggiungere il capello d'angelo o in caso di mancanza la zuccata.Infine aggiungere una buccia di limone grattuggiata e mettere in frigo.
 

MATTEO LISCIANDRO 2i
ANELLETTI AL FORNO ALLA PALERMITANA
  • Ingredienti 
  • 500 gr di anelletti
  • 250 gr di manzo macinato (tritato)
  • 200 gr di concentrato di pomodoro
  • 100 gr di carne di maiale tritata
  • 200 gr di caciocavallo grattugiato
  • 1 cipolla media
  • 300 gr di piselli
  • 1 bicchiere di vino rosso
  • 100 gr di primosale
  • 100 gr di pangrattato
  • olio extra vergine di oliva
  • pepe nero e sale q.b.

Preparazione

Tritare finemente con un coltello la cipolla.
In una pentola a bordi alti piuttosto capiente, poichè dovrà contenere tutti i nostri ingredienti, versare l’olio e appena sarà diventato ben caldo versare la cipolla e soffriggere. Appena la cipolla sarà imbiondita aggiungere la carne di manzo tritata e quella di maiale. Fare attenzione che rosoli ben bene e che si colorisca, poi versare il vino e far evaporare. Far soffriggere per un paio di minuti rimescolando con un cucchiaio di legno a questo punto aggiungere i piselli e, poco dopo, il pomodoro concentrato e circa quattro bicchieri di acqua bollente (mezzo litro circa). Salare, pepare e lasciare cuocere a fuoco basso per almeno mezz’oretta. Se il sugo dovesse apparire ancora troppo denso aggiungere ancora acqua al fine di consentire la cottura. Quando la cottura sarà quasi ultimata ed il sugo ristretto (non deve essere nè denso nè troppo liquido) in una pentola portare l’acqua per cuocere la pasta ad ebollizione, poi versare gli anelletti ed attendere il tempo di cottura. Scolare la pasta al dente e condire solo con il sugo preparato. Spolverizzate gli anelletti con il caciocavallo grattugiato. Preparare una teglia, ungerla d’olio e spolverizzarla di pangrattato versare una metà degli anelletti, aggiustarli sul fondo della teglia con un cucchiaio di legno. Disporre delle fette di primosale e poi versare sopra i restanti anelletti. Coprire con pangrattato (strato sottile) un filino d’olio e passare in forno preriscaldato per circa 20 minuti.
Questo piatto è tipico della zona del palermitano viene preparato spesso in special modo nei giorni di festa, quelli in cui si riunisce la famiglia.


GIUSEPPE GALATI - 2I

ARANCINE


Da “Palermo è… “ di Gaetano Basile:
L’arancina esprime il massimo della civiltà della nostra isola: pensare a portarsi dietro qualcosa di cotto da casa proprio quando dal focolare domestico si è lontani, attiene ai puri piaceri dello spirito. Si racconta che fu l’emiro Ibn At Timnah ad inventare il “timballo di riso” o di pasta; pare che se lo portasse appresso quando andava a caccia. Una trovata geniale: il riso profumato di zafferano e teneri piselli, con tanti pezzetti di carne, fu manipolato in modo da farne una palla grossa quanto un’arancia che, impanata e fritta, resisteva superbamente al trasporto.
Pare che il risotto alla milanese altro non fosse che un’arancina che non riuscì a prendere la giusta forma per la differente qualità del riso lombardo e così, finì disfatta su un piatto, diventando un semplice risotto. Forse una
malignità tutta palermitana!
Ingredienti:
1,300 kg di riso superfino arboreo Con queste dosi si ottengono circa venti arancine
Tre litri circa di brodo di carne o vegetale
1 cipolla
100 grammi di burro
2 bustine di zafferano
250 grammi parmigiano grattugiato
200 grammi di primosale a cubetti
Olio di semi di mais per friggere
Pangrattato abbondante
Per il ragù di carne:
400 grammi tritato di carne di manzo
1 cipolla
100 grammi concentrato di pomodoro
50 grammi di parmigiano grattugiato
2 foglie di alloro
2 chiodi di garofano
200 grammi di piselli freschi
Olio extra vergine d’olive
½ bicchiere di vino bianco
Sale e pepe q.b.
Preparare il risotto circa dodici ore prima di realizzare le arancine (deve essere freddo, perché per la buona riuscita delle arancine l’impasto deve essere abbastanza duro e appiccicoso).
Preparare il brodo nel quale scioglieremo lo zafferano.
In un tegame capiente, fare appassire la cipolla tagliata finemente (non deve imbiondire), aggiungere il riso e farlo tostare quindi, sempre mescolando,
aggiungere il brodo, ben caldo, poco per volta e portare il riso a cottura, scendere dal fuoco e amalgamarvi il parmigiano grattugiato ed il burro. Fare
mantecare per qualche minuto, quindi versarlo in un piatto grande e farlo raffreddare.
Prepariamo il ragù:
Soffriggere in un tegame la cipolla con l’olio. Aggiungere il tritato farlo rosolare a fuoco vivace, facendo attenzione a sgranarlo bene con un cucchiaio
di legno, quindi sfumare con il vino. Unire sale, pepe, alloro, chiodo di garofano e il concentrato sciolto in poca acqua (il ragù, alla fine deve
risultare denso, quasi asciutto) e, a cottura ultimata, il parmigiano.
Cuocere i piselli (se usiamo quelli surgelati, li scongeliamo in acqua salta bollente con 1 foglia di alloro e un pizzico di zucchero), scolarli e unirli al ragù freddo.

Confezioniamo le arancine:
Prendere una cucchiaiata di riso e metterla sul palmo della mano in modo da formare un incavo dove metteremo un cucchiaio di ragù e, al centro, un cubetto
di primosale. Prendere un’altra cucchiaiata di riso e ricoprire molto bene il ragù, facendo attenzione a non farlo fuoriuscire. Formare l’arancina stringendo
questo composto con le mani in modo da compattarlo. Passare a pangrattato sempre compattando l’arancina e mettere da parte. Procedere fin quando si
esauriscono gli ingredienti.
In abbondante olio bollente friggere le arancine fin quando non saranno ben dorate (il risultato migliore si ottiene con una friggitrice).

Variante:
L’arancina tradizionale l’abbiamo appena descritta, ma un ottima variante è quella, che dalle nostre parti, chiamiamo al burro e che in questo caso assume la forma allungata (simile a una pera) per distinguerla da quella ripiena di
carne.
Per prepararla il procedimento è identico, cambia soltanto il ripieno che viene realizzato amalgamando i seguenti ingredienti:
500 grammi di mozzarella tagliata a cubetti 300 grammi di prosciutto cotto tagliato a pezzetti 30 grammi di parmigiano grattugiato 100 grammi di burro.



CHRISTIAN CASTELLI - 2 I
PANE CON LE PANELLE
’U pani chi Panelli e cazzilli (il pane con le panelle e crocchette di patate). È uno dei più classici e antichi esempi del mangiare di strada dei Palermitani. In Sicilia, ma in particolare a Palermo, questo semplice e prelibato panino imbottito lo possiamo trovare facilmente, in ogni angolo di strada, nelle friggitorie(panellari). C’è da considerare che quelli da noi chiamiati semplicemente “panellari”, sono i veri precursori  dei moderni fast food; soltanto che, permettetemi di dirlo, un panino con la salsiccia non è assolutamente paragonabile né col “pane e panelle”, né tanto meno con le bontà che una friggitoria Siciliana è capace di offrire (piccoli pesci, melanzane, carciofi, broccoletti e chi più ne ha più ne metta!).
Le panelle sono delle frittelle realizzate con farina di ceci. “I cazzili” invece, come detto, sono polpette di patate. Queste ultime vengono comunemente chiamate crocchè (da crocchette), ma al palermitano piace, tuttavia, chiamarle “cazzilli” per esprimere in maniera grossolana  la crocchè. Comunque li chiamiamo, quest’accoppiata gustata ancora fumante assieme ad un panino (che può essere la mafalda o mafaldina, o la muffoletta, ma comunque pane bianco) è un formidabile pasto completo e, soprattutto, economico.
I miei ricordi sul pane e panelle, legati soprattutto all’infanzia, coincidono alla  perfezione con le “filosofie di pensiero” espresse da Daniele Billiteri nel suo libro “In Sicilia in Cucina: gastronomia da marciapiede”:
In principio era il pane e panelle. Simbiosi poi tristemente spezzata dall’avvento dei tempi moderni quando la panella cominciò a circolare da sola, trasferita a viva forza dai luoghi di produzione alle case ormai piccolo borghesi dei palermitani. Ma all’inizio la regola era: mai panelle senza pane. E l’incontro doveva avvenire nei luoghi deputati, cioè il panellaro, al cui cospetto prevalentemente si svolgeva il rito del consumo. Palermo ne era piena: posti fissi, solidi muri, antri un po’ bui, odore di olio rifritto e di cereali bolliti. I carrettini, le “lape” (moto Ape Piaggio), i panellari vaganti appartengono a tempi più recenti.
La panelleria si giudicava con il parametro della pulizia. Era “l’affaccio”(la bella disposizione dei prodotti) che contava. Sul piano inclinato forato, che funzionava come gocciolatoio dell’olio superfluo, il panellaro riversava le panelle ancora gonfie di vapore, segno di recentissima frittura,  poi riempiva le pagnotte o i mezzi pani (preferibilmente mafalde – tipica forma di pane palermitano) e poi serviva. Per accompagnare la pietanza, in ghiacciaia c’erano le gassose Partanna (famosa, ma non più esistente, fabbrica di bevande) nelle due varianti: normale e al caffè.
Il lavoro del panellaro cominciava il mattino presto e certe volte nel pomeriggio precedente. Cuoceva la farina di ceci come la polenta, un continuo rimestare con un paiolo da zattera, nel suo antro buio davanti alla pentola fumante, magari su un fuoco a legna…. Poi metteva a raffreddare l’impasto coperto con una mappina (strofinaccio) e solo quando diventava maneggiabile, per il calore non eccessivo, cominciava a lavorare le panelle; ma non bisognava perdere l’attimo fuggente, perché se si aspettava troppo, l’impasto induriva e diventava buono, tuttalpiù,  per una mesta produzione di rascature (è la rimanenza della farina di ceci cotta indurita, non più spalmabile), roba da morti di fame,l’articolo più infimo e il meno costoso di tutta la panelleria, da chiedere sottovoce, giusto per perversione alimentare.
I panellari più conosciuti e amati dai palermitani usavano delle formelle di legno levigato di forma rettangolare con incisi in rilievo ameni motivi floreali. Sulle formelle veniva spalmato l’impasto che, indurito, dava luogo alla panella cruda. Il motivo floreale non era un semplice amore per l’arte, bensì un segno di riconoscimento perchè il disegno si riconosce solo sulla panella fritta da poco, poi si perde. Mettiamo che un infedele accarezzi il diabolico progetto di riciclare panelle già fritte “rivitalizzandole” in un bagno d’olio bollente: ecco, in quel caso addio disegno e scoperto l’inganno. Insomma il motivo floreale era una specie di marchio per la panella doc…….
……..Le panelle si chiamavano piscipanelli assicura Pitrè, e furono il surrogato di una irraggiungibile frittura di pesce troppo cara per le tasche dei nostri avi, si vendevano dai primi di dicembre fino a Natale con il picco più alto per Santa Lucia, naturalmente. Poi finirono col diventare colazione o cena, spesso l’unico pasto quotidiano dei poveracci.
Ingredienti per le panelle
500 grammi di farina di ceci
1,5 litri circa di acqua
Sale e pepe q.b
Un ciuffo di prezzemolo tritato
Olio di semi per friggere.
Preparazione
Far sciogliere, a freddo, la farina di ceci nell’acqua,con il sale e il pepe, facendo molta attenzione che non si formino grumi. Cuocere a fuoco basso, mescolando continuamente con un cucchiaio di legno (bisogna fare attenzione a non farla attaccare al fondo della pentola), fin quando otterremo una crema piuttosto morbida ma ben compatta. Prima di fine cottura, continuando a mescolare, aggiungere il prezzemolo tritato
A questo punto spalmare l’impasto ottenuto su delle apposite formine di legno. Io lo spalmo, ad uno spessore di 2-3 mm., su dei piatti piani (vanno bene anche piattini da caffè). Fare raffreddare e, se abbiamo usato i piati piani, tagliarle in quattro. Scollare le panelle molto delicatamente dai piatti, adagiarle in un altro piatto (si possono anche sovrapporre) e friggerle (possibilmente in friggitrice) in abbondante olio bollente. In pochi minuti saranno imbiondite e le metteremo su carta assorbente da cucina. Vanno mangiate calde con appositi panini (“mafalde”, “mafaldine”, ecc.), ma in mancanza va bene qualsiasi pane bianco.Ingredienti per le crocchette di patate (“cazzilli”)
1 chilo di patate vecchie
Sale e pepe q.b.
Qualche cucchiaIo di maizena
Un ciuffo di prezzemolo
Olio di semi per friggere
Preparazione
Bollire le patate, pelarle e setacciarle con un normale schoacciapatate. Aggiungere sale e pepe,  il prezzemolo tritato e qualche cucchiaio abbondante di maizena.  Amalgamare bene e formare delle piccole crocchette ovali. Friggerle in abbondante olio caldo.
È giusto dire che la riuscita della frittura delle crocchè è strettamente legata a dei fattori come, ad esempio, la qualità delle patate e il calore dell’olio. Nella Sicilia orientale, per evitare inconvenienti, usano passare le crocchette negli albumi sbattuti, poi al pangrattato e quindi le friggono
 


Il potere della comunicazione


La struttura del giornale


Le città in Europa