« Ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera. »

mercoledì 15 maggio 2019

DANIEL PENNAC [Diario di scuola, p. 135]

[Diario di scuola, p. 135]
Una parte del mio mestiere consisteva nel persuadere i miei studenti più abbandonati a loro stessi che la gentilezza più del ceffone invita alla riflessione, che la vita in comunità ha delle regole, che il giorno e l’ora della consegna di un compito non sono negoziabili, che un compito malfatto è da rifare per l’indomani, che questo, che quello ma che mai e poi mai né i miei colleghi ne io li avremmo abbandonati in mezzo al guado. Affinché avessero una possibilità di farcela, occorreva reinsegnare loro il concetto stesso di sforzo, restituire loro il piacere della solitudine e del silenzio, e soprattutto il controllo del tempo, quindi della noia. Sì, qualche volta ho consigliato loro esercizi di noia, per collocarli nella durata. Li pregavo di non fare niente: non distrarsi, non consumare niente, nemmeno conversazione, né tantomeno studiare, insomma non fare niente, niente di niente.
“Oggi pomeriggio, esercizio di noia, venti minuti a non fare niente prima di mettervi a studiare.”
“Nemmeno ascoltare musica?”
“Assolutamente no!”
“Venti minuti?”
“Venti minuti. Orologio alla mano. Dalle 17.20 alle 17.40. Tornate diritti a casa, non rivolgete la parola a nessuno, non vi fermate in nessun bar, ignorate l’esistenza dei flipper, non riconoscete i vostri amici, entrate in camera vostra, vi sedete sul letto, non aprite la cartella, non vi mettete il walkman sulle orecchie, non guardate il vostro gameboy, e aspettate venti minuti, fissando il vuoto.”
“Per fare cosa?”
“Per curiosità. Concentratevi sui minuti che passano, non perdetevene neanche uno e domani mi raccontate.”
“E come farà, lei, a verifìcare che l’abbiamo fatto?”
“Non posso.”
“E dopo i venti minuti?”
“Buttatevi sui compiti come degli affamati.”

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